SN 8813

 

  

P  O  I  E  S  I  S

L'angustia del sensibile stringeva gli uomini di una verità mortificante: la nuda apparenza dei fenomeni; e gli uomini produssero, opposta a quella e al di sopra di quella, un'altra verità, ideale ed infinita: il mondo dello spirito. E dentro vi posero gli errori di quelle favole, e ravvivarono nel presente la lontananza del mito, in esso atteggiando i ritmi dell'animo: echi misteriosi che fingevano l'Essere in figure e si formavano dai supremi abbandoni della coscienza, durante i quali l'umanità esperta ripensò l'ignoto e potè nuovamente e diversamente sognare.

Sorgeva per tal modo la poesia: superamento di ogni termine fisico, per cui l'arte si presentò come realtà dissolvitrice del tempo, e l'uomo aggiunse i suoi miracoli a quelli della natura; produsse anche l'uomo l'inesplicabile e l'eterno:  il linguaggio della fantasia. 

Primo, antico segno di una presenza metafisica, l'enigma della parola poetica, sonora meraviglia che dà vita alle cose del mondo, toccò nell'Ellade, per modi e toni diversi, la pienezza del dire:  di quell'esprimersi umano che tanto era vivo, - un alitare così spirituale ed etereo - che svaniva nell'aria, e non si lasciava contenere, trascrivere in caratteri.

I Greci inalarono quelle aspirazioni animate nelle vocali, cui vennero in soccorso lo « spirito » ed altri segni, appunto perché tutta spirito era la parola, un alito sfuggente, anima della bocca, soffio vagante intorno all'orecchio; e le morte lettere che essi disegnarono erano solamente il cadavere che leggendo si doveva rianimare con lo spirito della vita. Fu questo spirare l'origine poetica, e però spirituale, della lingua greca. 

Per tanto da quell'angusto lembo di terra specchiato su incanti marini, da una stirpe fisicamente e spiritualmente privilegiata, scaturì all'Occidente la luce della poesia; che illumina i sentieri della civiltà estetica europea che nascono dalla Grecia e si diramano, erbosi e divisi, per la medesima selva. 

La poesia era ai Greci quel dire stesso che lasciava apparire ciò che i parlanti poeti vedevano e additavano agli uomini: l'ignoto che sta oltre e sopra gli dèi. 

Era l'aprirsi metafisico dell'Essere, il senso enigmatico del mondo e del tempo per raccogliersi dallo smarrimento e rallentare e fermare nella parola la vicenda del tempo di fronte alla morte.

È qui la visione dell'umanità che entra nel tempo storico e crea la civiltà come limite all'affermarsi violento dell'uomo che si erge sulla natura e che si arrischia a dominarla di là dalla speranza e che pur cade nella più misera delle condizioni, respinto dalla morte: giacché la rovina e la sciagura gli pendono sopra.  

Il più grande e ammirato prodigio dell'Essere rimane l'uomo: l'uomo che la poesia dei Greci ha sempre celebrato e l'arte plastica effigiato. Forse l'umanesimo estetico, scoperto primamente dai Greci, non raggiunse più mai quelle vette, neppure in successive, tuttavia felici, epoche artistiche. 

I Greci vedevano nella sembianza esteriore dell'uomo la sua interiorità e sempre credettero che fra bellezza e spiritualità esistesse un costante rapporto: ideale precipuamente ellenico, trasmesso ai Greci da Omero come immagine di una realtà eterna. 

La prima voce compiuta di questa realtà che si diffuse nel mondo ellenico e restò per ogni tempo nel cuore delle genti fu quella di Omero. Egli svelò e impose la fantasia alla storia, aprì l'eterno ai fatti del tempo: perché il poeta sovrasta col suo canto e soccorre la storia, la piega e la celebra, la rimira e la solleva e la getta oltre, di là dai varchi mortali, dove suona l'iperbole della parola. 

Per lo stupore che l'arte suscitava l'apparizione del poeta, dell'aèdo recitante, fu ritenuta divina: simile agli dèi scendeva la sua voce, come quella di Demodoco che nel convito di Alcinoo moveva in segreto le lacrime di Ulisse. Voce che della sofferenza umana, come espressione dell'affanno eroico, si nutrì dall'origine.

E la grande arte, del resto, fa testimonianza che le forme supreme della fantasia sono una modulazione del dolore. Nascevano dal dolore gli affetti e l'ansia medesima di sopravvivere al consumarsi dell'esistenza nel tempo. Ma la voce del poeta era divina perché scioglieva nei suoni quel dolore, più divina se più arcanamente lo cantava e lo toglieva al giorno fugace per idealizzarlo e comporlo di melodie. Per mezzo di quella voce il dolore diventava sereno, musica liberatrice: saliva cioè a quel più alto e riposato approdo, che i Greci chiamarono « purificazione », kàtharsis.

   I. Lamento di Penelope

         Il Ritorno di Ulisse in Patria

 

   II. Ninfa

         Orfeo

 

   III. Lamento di Olimpia

 

   IV. Proserpina

         Orfeo

 

   V. Lettera Amorosa I

         Se i languidi miei sguardi

 

NELLA  ANFUSO  Cantatrice
Pier Luigi Polato Chitarrone 
  Margherita Dalla Vecchia Organo di legno

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  Testo Musicologico del Prof. Annibale Gianuario

 

 

 

 

 

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