L'angustia
del sensibile stringeva gli uomini di una verità
mortificante: la nuda apparenza dei fenomeni; e gli uomini
produssero, opposta a quella e al di sopra di quella,
un'altra verità, ideale ed infinita: il mondo dello spirito.
E dentro vi posero gli errori di quelle favole, e
ravvivarono nel presente la lontananza del mito, in esso
atteggiando i ritmi dell'animo: echi misteriosi che
fingevano l'Essere in figure e si formavano dai supremi
abbandoni della coscienza, durante i quali l'umanità esperta
ripensò l'ignoto e potè nuovamente e diversamente sognare.
Sorgeva
per tal modo la poesia: superamento di ogni termine fisico,
per cui l'arte si presentò come realtà dissolvitrice del
tempo, e l'uomo aggiunse i suoi miracoli a quelli della
natura; produsse anche l'uomo l'inesplicabile e l'eterno:
il linguaggio della fantasia.
Primo,
antico segno di una presenza metafisica, l'enigma della
parola poetica, sonora meraviglia che dà vita alle cose del
mondo, toccò nell'Ellade, per modi e toni diversi, la
pienezza del dire: di quell'esprimersi umano che tanto era
vivo, - un alitare così spirituale ed etereo - che svaniva
nell'aria, e non si lasciava contenere, trascrivere in
caratteri.
I Greci
inalarono quelle aspirazioni animate nelle vocali, cui
vennero in soccorso lo « spirito » ed altri segni, appunto
perché tutta spirito era la parola, un alito sfuggente,
anima della bocca, soffio vagante intorno all'orecchio; e le
morte lettere che essi disegnarono erano solamente il
cadavere che leggendo si doveva rianimare con lo spirito
della vita. Fu questo spirare l'origine poetica, e però
spirituale, della lingua greca.
Per tanto
da quell'angusto lembo di terra specchiato su incanti
marini, da una stirpe fisicamente e spiritualmente
privilegiata, scaturì all'Occidente la luce della poesia;
che illumina i sentieri della civiltà estetica europea che
nascono dalla Grecia e si diramano, erbosi e divisi, per la
medesima selva.
La poesia
era ai Greci quel dire stesso che lasciava apparire ciò che
i parlanti poeti vedevano e additavano agli uomini: l'ignoto
che sta oltre e sopra gli dèi.
Era
l'aprirsi metafisico dell'Essere, il senso enigmatico del
mondo e del tempo per raccogliersi dallo smarrimento e
rallentare e fermare nella parola la vicenda del tempo di
fronte alla morte.
È qui la
visione dell'umanità che entra nel tempo storico e crea la
civiltà come limite all'affermarsi violento dell'uomo che si
erge sulla natura e che si arrischia a dominarla di là dalla
speranza e che pur cade nella più misera delle condizioni,
respinto dalla morte: giacché la rovina e la sciagura gli
pendono sopra.
Il più
grande e ammirato prodigio dell'Essere rimane l'uomo: l'uomo
che la poesia dei Greci ha sempre celebrato e l'arte
plastica effigiato. Forse l'umanesimo estetico, scoperto
primamente dai Greci, non raggiunse più mai quelle vette,
neppure in successive, tuttavia felici, epoche artistiche.
I Greci
vedevano nella sembianza esteriore dell'uomo la sua
interiorità e sempre credettero che fra bellezza e
spiritualità esistesse un costante rapporto: ideale
precipuamente ellenico, trasmesso ai Greci da Omero come
immagine di una realtà eterna.
La prima
voce compiuta di questa realtà che si diffuse nel mondo
ellenico e restò per ogni tempo nel cuore delle genti fu
quella di Omero. Egli svelò e impose la fantasia alla
storia, aprì l'eterno ai fatti del tempo: perché il poeta
sovrasta col suo canto e soccorre la storia, la piega e la
celebra, la rimira e la solleva e la getta oltre, di là dai
varchi mortali, dove suona l'iperbole della parola.
Per lo
stupore che l'arte suscitava l'apparizione del poeta,
dell'aèdo recitante, fu ritenuta divina: simile agli dèi
scendeva la sua voce, come quella di Demodoco che nel
convito di Alcinoo moveva in segreto le lacrime di Ulisse.
Voce che della sofferenza umana, come espressione
dell'affanno eroico, si nutrì dall'origine.
E la grande arte, del
resto, fa testimonianza che le forme supreme della fantasia
sono una modulazione del dolore. Nascevano dal dolore gli
affetti e l'ansia medesima di sopravvivere al consumarsi
dell'esistenza nel tempo. Ma la voce del poeta era divina
perché scioglieva nei suoni quel dolore, più divina se più
arcanamente lo cantava e lo toglieva al giorno fugace per
idealizzarlo e comporlo di melodie. Per mezzo di quella voce
il dolore diventava sereno, musica liberatrice: saliva cioè
a quel più alto e riposato approdo, che i Greci
chiamarono « purificazione », kàtharsis.
I.
Lamento di Penelope
Il Ritorno
di Ulisse in Patria
II.
Ninfa
Orfeo
III.
Lamento di Olimpia
IV.
Proserpina
Orfeo
V.
Lettera Amorosa I
Se i
languidi miei sguardi
NELLA
ANFUSO Cantatrice Pier Luigi Polato Chitarrone
Margherita
Dalla Vecchia Organo di legno